La lingua siamo noi. Intervista a Ruska Jorjoliani
Alla fine degli anni Ottanta Gérard Genette scrive uno dei saggi più importanti della critica letteraria del Novecento, che presenta un titolo affascinante ed enigmatico, Soglie. Per Genette le “soglie” sono tutto ciò che sta nei dintorni del testo – al suo “ingresso”, potremmo dire – e che dà la possibilità di leggerlo da diversi punti vista. Soglie sono il nome dell’autore, il titolo, le dediche, le epigrafi. Ecco, è l’epigrafe, ovvero la citazione che precede l’inizio di un romanzo o di un saggio, l’elemento che potrebbe darci modo di capire molto della storia e delle riflessioni che matureremo insieme a Ruska Jorjoliani. Perché sulla soglia, all’ingresso di questa nostra conversazione, bisognerebbe apporre i versi di una poesia di Vincenzo Cardarelli, Novembre, che comincia così: “C’è un giorno che tutte le formiche escono dal bosco/ a fare il fascio per l’invernata”. Chiedersi perché proprio questa poesia debba stare lì significa chiedere a Ruska Jorjoliani, giovane scrittrice georgiana, come cominciano i suoi rapporti con l’Italia.
“Era il 1996. Facevo parte di un gruppo di bambini provenienti da famiglie sfollate per la guerra, che sarebbero stati accolti in Sicilia per offrire loro uno spazio di pace e tranquillità. Tornata in Georgia continuo a vivere il legame con l’Italia, ci vengo ogni anno, frequento un liceo in cui si studia l’italiano. In quel liceo incontro una professoressa di lettere, si chiamava Ketevan Devadze, che crede molto nelle mie capacità e mi esorta a scrivere. Allora ci provo, però, non scrivo un racconto, come forse sarebbe stato naturale, ma traduco una poesia. E mi ritrovo a tradurre in georgiano Novembre di Vincenzo Cardarelli. Da quel momento la mia professoressa si convince, ha quasi la prova che la letteratura sarà la mia strada”.
E pure tu ne eri convinta?
“No, io no. Erano gli anni in cui il mio Paese si apriva al mondo, tra i miei intenti c’era quello di fare la diplomatica, e quindi ho cominciato a studiare Relazioni Internazionali a Tbilisi. Con il progetto di trasferirmi in Italia, dalla mia famiglia italiana, una volta finita l’università in Georgia. E così ho fatto, mi sono laureata e poi, a ventidue anni, mi sono trasferita in Sicilia. A Palermo ho iniziato a studiare Scienze politiche, ma qualcosa non andava. Vivevo tutto con enorme disagio e insoddisfazione. Cominciavo a pensare di avere sbagliato strada, che Scienze politiche non fosse la scelta giusta. In quel momento ho deciso di scrivere una lettera alla mia professoressa del liceo, per chiederle un incoraggiamento, una sorta di benedizione, per dirle che aveva sempre avuto ragione, che il mio desiderio più profondo era quello di scrivere, di confrontarmi con la grande letteratura”.
Come ti ha risposto lei?
“Che ne era convinta. Ed era felice che finalmente me ne rendessi conto io. È stata una figura determinante per me”.
Quindi, dopo quella sua risposta cominci a scrivere.
“Diciamo di sì. Mentre frequento Scienze Politiche, in un momento di grande malessere e scoramento, leggo molti poeti italiani. Giuseppe Ungaretti, Cesare Pavese, Dino Campana. Torno moltissimo sulle loro sillogi, finisco per studiarli sempre più a fondo. E parallelamente a quelle letture, a quello scavo, provo a replicare il loro fare poesia, il mettersi in versi, e così scrivo delle poesie in italiano. E le faccio leggere alla mia madre italiana, che in un primo momento non ci crede, non crede che possa esserne io l’autrice”.
Sarà poi lei a spingerti a partecipare al premio Mondello Giovani – Poesia, che vinci nel 2009. Cosa ti ha portato a scrivere in italiano? Mentre scrivevi, pensavi al fatto che stavi usando l’italiano e non il georgiano?
“Sì, è stata una scelta. Una volontà dettata da una spiccata spontaneità, da un clima che mi portava fisiologicamente a scegliere di adottare quella lingua. Dentro di me univo coraggio e ingenuità: il coraggio di confrontarsi con una lingua che non era la mia e con una tradizione letteraria insormontabile. L’ingenuità che ti permette, in quel momento, di non pensarci, alle questioni della lingua e della tradizione letteraria, e ti lascia scrivere così come senti di farlo.
La scelta dell’italiano era anche un modo per allontanarti, per separarti dalla te georgiana?
“Forse sì. A muovermi però non era l’intenzione separarmi dalla me georgiana, piuttosto l’esigenza di sigillare la mia volontà di fare parte di una cultura, della cultura italiana. Cercare di dare un’impronta più forte al mio voler essere italiana. Sono entrata in questa cultura, l’ho fatta mia: abitando la lingua italiana sono entrata a far parte della forma di vita italiana”.
Cosa intendi?
“La lingua modella le nostre vite. È il carattere che ci condiziona più di ogni altra cosa, che si insinua nei più riposti meandri della nostra personalità, che fa la nostra personalità. La lingua che abitiamo ci appartiene più di ogni altra cosa. O ci dà l’illusione di appartenerci più di ogni altra cosa, perché noi della lingua non possiamo appropriarci: non è qualcosa di materiale, un oggetto; siamo noi la lingua, ne siamo parte, ne facciamo parte. Eppure, è una bellissima illusione credere convintamente che ci appartenga per quel breve lasso di tempo che sono le nostre vite”.
La riflessione di Jorjoliani mi riporta alla memoria una risposta di Antonio Tabucchi a un interrogativo molto scomodo. Dal momento che era noto il suo cosmopolitismo, molti giornalisti gli chiedevano spesso quale fosse la sua patria, il Paese in cui si riconosceva cittadino. Allora Tabucchi rispondeva sicuro: “La mia patria è la lingua italiana”.
La conversazione con Ruska Jorjoliani rimane sulla soglia, non varca l’ingresso dei suoi due romanzi scritti in italiano – La tua presenza è come una città (2015) e Tre vivi, tre morti (2020). In futuro ci sarà l’occasione per superarla. Intanto fuori il tempo intuisce il seguito dei versi di Cardarelli: “Sopraggiungono, di lì a poco,/ le lunghe piogge autunnali,/ simili a un gran pianto dirotto, interminabile”.
18/10/2020